Redatto da Enrico Bimbi per corsi sommelier Fisar

Un po’ di storia: il racconto di…vino

Cari amici, il tema che andiamo da affrontare è senza dubbio un po’ ostile. Per un appassionato di vino come lo sono io e come lo siete voi. E’ molto più attraente studiare un esame organolettico con un buon bicchiere davanti che un trattato di storia. State comunque tranquilli, cercherò di essere il più conciso possibile e tenterò di alleggerirvi la lettura citando aneddoti e leggende che, tutto sommato, destano interesse e curiosità.
Affacciandosi al mondo ci rendiamo conto che ovunque si sia insediata la razza bianca, è stato provato a produrre vino, nella maggior parte dei casi riuscendovi. Oltre naturalmente all’Europa, basti pensare all’Africa, Asia, Australia, Nuova Zelanda e America con l’Argentina, Brasile, Cile, Stati Uniti, persino Canada. Gran merito di questa diffusione globale si deve senza dubbio alla nostra religione, che non solo approva il consumo del vino ma lo accoglie trionfalmente in uno dei suoi sacramenti più importanti: l’Eucarestia. Per contro, le altre due maggiori religioni, mussulmana e induista, lo mettono al bando nel modo più drastico assieme a tutte le altre bevande alcoliche.
Se è vero che la diffusione è documentata dalla storia, è altrettanto vero che le origini del vino sono costellate da punti interrogativi. È sconosciuta la patria di origine e non siamo ancora riusciti a determinare se la vite, Vitis Vinifera Sativa, discenda dalla vite silvestre, pianta selvatica primordiale che cresceva a dismisura, con tronchi molto robusti e selve di tralci che avevano le dimensioni di veri e propri rami. Per l’origini ci affidiamo alla leggenda che, prendendo spunto dalla Bibbia, attribuisce l’invenzione del vino a Noè, protagonista anche della prima famosa ubriacatura che destò apprensione (ed ilarità) nei suoi figli Sem, Cam, Jafet. A difesa di questa discutibile tesi c’è il fatto che i primi documenti che parlano di vino fanno capo alla Transcaucausia (tuttora zona vinicola), località antica nei pressi del monte Ararat, il mitico monte dell’Arca. Dalla Transcaucasia la vite sarebbe passata nella Tracia settentrionale diffondendosi nella costa mediterranea per opera dei Fenici.
Passando a storia certa, un ruolo determinante per la divulgazione del vino è da attribuire all’Egitto. L’uva veniva raccolta nei giardini del Nilo disseminati lungo il delta e gli egizi, già esperti nei processi fermentativi con la birra, riuscivano a fare un buon vino che veniva agevolmente trattato come merce di scambio con altri popoli.

Per quanto riguarda l’Europa troviamo la Grecia in primo piano nella produzione vinicola. I primi documenti, scoperti a Plios e a Creta, risalgono a 14 secoli prima di Cristo, successivamente troviamo il vino al posto d’onore nelle opere di Omero che paragona il mare Egeo al “vino scuro” nell’Odissea. In questo periodo il vino pregiato era destinato alle persone di nobile censo che disponevano del potere politico ed erano soliti prendere decisioni in assemblee, dove era norma bere in compagnia. Qui, cari futuri sommeliers, entra in ballo il vostro progenitore: il “cerimoniere”. Egli era infatti l’addetto alla cantina, all’apertura dei pithoi (grandi giare in uso per conservazione del vino), alla miscelazione con l’acqua (a quei tempi il vino veniva sempre annacquato) e alla determinazione della quantità di vino da dare ai commensali; queste due ultime funzioni erano fondamentali per evitare pericolose ubriacature quando si doveva prendere decisioni importanti. Notizia curiosa e nel contempo terribile di questo stato sociale è il divieto alle donne di bere vino che veniva fatto rispettare con la minaccia della pena capitale. Grande importanza fu data al vino dalla mitologia, la quale gli destinò una divinità: Dionisio (chiamato in seguito Bacco dai romani), il figlio più piccolo di Zeus. Egli, secondo la leggenda, soleva riposare nell’Olimpo sotto il fresco di una pianta particolare. Quando dovette scendere sulla terra, si era talmente affezionato a questo albero che decise di portarselo dietro e con suo grande stupore scopri che nel mondo degli uomini faceva un frutto a grappolo i cui chicchi erano molto buoni e bastava spremerli e lasciarli fermentare per ottenere un liquido che era un vero e proprio nettare degli dei. Avrete sicuramente capito che quella pianta altro non era che la vite e Dionisio, scopertone le potenzialità, si propose di farla conoscere al mondo intero, diventando un vero e proprio missionario del vino.
Per quanto riguarda l’Italia ci sono diverse teorie sull’insediamento della vite. Uno di queste è quella che a importarla per la prima volta sia stato Enotrio, pioniere greco che colonizzo quella parte della nostra penisola che oggi corrisponde alle regioni della Basilicata e della Calabria. In quelle zone piantò le prime barbatelle provenienti dall’Egeo che poi si diffusero in Sicilia, Puglia, Campania, Toscana, Lazio e nell’antica Rezia, territorio che comprendeva trentino alto Adige, basso veneto e la Valle d’Aosta).
Un’altra fonte vede la vite iniziare dalla Sicilia per opera dei fenici, poi sarebbe lentamente risalita al nord grazie al forte impulso degli etruschi, probabili primi abitatori della zona del Chianti.
Una terza ipotesi è quella formulata da Giovanni Dalmazio, insigne studioso del vino, secondo il quale la presenza della vite è anteriore a quella dell’uomo. Tesi avvalorata dal ritrovamento a San Vivaldo, in Toscana, di pezzi di travertino con impronte fossili della Vitis Vinifera.
A prescindere dalle origini in Italia e fatta salva la leggenda di Noè, si può ben dire che il vino etrusco è stato uno dei più antichi del mondo. A questo popolo va senza dubbio riconosciuto il merito di aver introdotto il vino “pretto”, cioè puro,naturale, mentre greci e romani lo pasticciavano con aggiunta non solo di acqua ma con vari infusi di erbe, miele ed altre sostanze dolcificanti ed aromatiche. Durante i banchetti gli etruschi avevano l’usanza di spargere il vino sul pavimento come segno augurale e sul fuoco delle are per ingraziarsi gli dei. Tale usanza era definita “libagione”, nome rimasto tuttora col significato di abbondante bevuta. Per il trasporto e per l’invecchiamento, il vino veniva messo in anfore ingegnosamente sigillate con stucco e tamponi imbevuti di olio. Per portarlo in tavola veniva travasato in un recipiente di ceramica panciuto e molto bello, chiamati “ciathus” (cratere), che può essere considerato l’antenato del fiasco toscano. Per bere usavano un recipiente ovoidale con due manici allungati a nastro per poterlo portare più agevolmente alle labbra, chiamato “patera”.
Andiamo ora a vedere l’evoluzione del vino nella grande Roma. Bisogna affermare che all’epoca dei re e durante la repubblica, i romani non furono estimatori del vino. I pochi che lo conoscevano e gradivano berlo lo importavano dalla Grecia, perché la poca produzione locale era rustica e qualitativamente molto lontana dai nettari raffinati provenienti dal mare Egeo. Una svolta si è avuta con l’Impero e il suo espansionismo che ha permesso ai romani, carpendo le malizie enotecniche ai popoli suoi sottomessi, di produrre un buon vino in quasi tutta l’estensione del proprio territorio, portando così la vite dove non era conosciuta, in zone che saranno in seguito in primo piano nell’enologia mondiale, come la Francia. Quasi tutti i più famosi vini francesi hanno avuto fra i loro lontani padrini dei vignaioli romani al seguito delle legioni di Cesare. Non dobbiamo dimenticare che, quando i romani erano già molto civilizzati, i galli erano ancora un popolo di nomadi e non possedevano né la volontà, né il temperamento, né le cognizioni tecniche per dedicarsi alla coltivazione della vite. Da menzionare in questo periodo l’opera svolta da Plinio il Vecchio,insigne naturalista e palato sopraffino, che redasse, in veste critico costruttiva, un catalogo dove classificò minuziosamente ben 195 vini di cui 80 erano considerati di alta qualità.
La vite superò senza traumi la caduta dell’Impero Romano; ad assicurarne la continuazione pensò la chiesa, la quale non solo impiantò vigneti accanto alle abbazie e ai conventi, ma istituì delle scuole di enologia, nate dalla esigenza di disporre di vino “schietto” per la celebrazione della messa.

Per quanto riguarda i recipienti atti a contenere vino era in uso comune in questo periodo adoperare contenitori di creta smaltata e di terracotta. La prima documentazione che accenna qualcosa di molto simile al fiasco, quindi di vetro, risale al XII secolo, dove si menzionano i maestri vetrai di San Gimignano chiamati “Bicchierai”, la cui produzione era appunto quella di bicchieri e bottiglie. Sembra che il rivestimento in paglia del fiasco toscano sia stato inventato nientemeno che da Leonardo da Vinci, per espressa richiesta di un gruppo di vetrai. A parte l’inserimento del vetro, l’enologia non ebbe grossi cambiamenti nel periodo che comprende il Medioevo e il Rinascimento, mentre si ha una evoluzione con l’espansione del colonialismo. Con i pionieri la viticoltura arrivò in California, nell’America Centrale e nel Sudamerica. La Francia portò insieme con l’Italia le viti in alcuni paesi dell’Africa settentrionale, come Algeria e Tunisia, mentre la Spagna si occupò del Marocco. Fu però proprio il contatto con l’America a causare la più grande catastrofe della storia della vite. Nel corso della seconda metà del XIX secolo le nostre viti furono sterminate dalla comparsa di veri e propri flagelli provenienti da oltre oceano, cioè l’oidio (1852), fillossera (1868), peronospora (1885). La salvezza venne dal paese responsabile della catastrofe: innestate su piante americane le vecchie varietà di Vitis Vinifera iniziarono una nuova carriera. Quella che era stata una sciagura, forse si rivelò una fortuna perché costrinse la coltura della vite a passare da statica a dinamica e da empirica a scientifica. Infatti la soluzione a queste pestilenze si ebbero grazie al progredire della chimica e della biologia che incominciarono ad interessarsi di enotecnica risolvendo i misteriosi fenomeni legati alla vinificazione e segnando così l’inizio di collaborazione con il vignaiolo che continuerà e si svilupperà nel tempo fino a portarci ai giorni d’oggi.
Concludo con una ultima curiosità che a noi sta a cuore: l’origine del sostantivo sommelier. L’ipotesi più attendibile è quella, poco edificante, di derivare dal conduttore di bestie da soma che in guerra trasportava viveri e bevande (quindi anche vino) per le truppe combattenti. Questo guardiano di asini e muli era chiamato dai francesi “saumalier”. La vicinanza al nostro nome è talmente palese da rendere inutili ulteriori commenti. L’unica considerazione che faccio, e la faccio con piacere, è quella di constatare che l’opera svolta dai sommeliers, dall’inizio fino ad oggi, ha nobilitato questo sostantivo ed ha creato quella figura elegante, distinta e nello stesso tempo competente e professionale che tutti riconoscono ed ammirano.

Enrico Bimbi

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